«Ci voleva un libro ambientato dall'altra parte del mondo per farci capire come siamo fatti: buoni o cattivi, poco importa. Quello che conta è sapere che sparire può voler dire ritrovarsi. Fabio Viola ha fatto questo, ha svuotato il peggior sentimentalismo e l'ha riempito con l'azzardo umano. Riconciliandoci con la lettura»
Marco Missiroli
Quando la sua ex fidanzata Elisa, trasferitasi a Osaka un anno prima e finita a insegnare l'italiano in un alienante centro multimediale, inizia a non dare più notizie di sé, Ennio, ancora legato alla ragazza da un sentimento che dell'amore conserva più che altro il senso di gelosia e possesso, parte per il Giappone alla vigilia del cataclisma che lo colpirà l'11 marzo 2011. Ma ben presto, quella che doveva essere l'urgenza di quel viaggio, e cioè ritrovare Elisa, inizia a sfumare in una ricerca disordinata, mentre Ennio, dalla vita annoiata e disincantata di figlio dell'alta borghesia romana, resta fagocitato nel gorgo di luci e segni di Osaka e da un Giappone tanto scintillante quanto sinistro e spietato. In una realtà che sembra sgretolarglisi intorno, per ricostruirsi sempre diversa e straniante, popolata da personaggi che hanno trovato nel Giappone l'occasione di una vita priva di fondamenta, Ennio finirà nelle zone del Paese più colpite dal terremoto e più esposte al rischio radioattivo di Fukushima, in uno scenario dominato dalla devastazione e dalla neve, e dove la ricerca di Elisa lascerà intravedere un epilogo.
Sparire è una storia d’amore e malinconia, della ricerca di un sentimento che esiste nel ricordo e nella cronaca di se stesso, di un Paese che attrae e tiene a distanza in egual misura. Un romanzo sull’impossibilità del raccontare la realtà e sulla supremazia del racconto sulla vita stessa.
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Hanno scritto di Fabio Viola:
«Un esordio misterioso e geniale, angosciante e grottesco»
Matteo Nucci, il Venerdì di Repubblica
«Un’efficace invenzione letteraria, un romanzo che ci parla di un’Italia volgare, individualista e disperata»
Roberto Carnero, Famiglia Cristiana
«Quasi un Lynch italiano, non un’imitazione»
Andrea Scarabelli, Rolling Stone