Quale prezzo il cristianesimo paga alla dottrina dei diritti umani? Può pagarlo? Se lo paga, aggiorna o trasforma il messaggio cristiano? E i diritti umani hanno un fondamento sicuro oppure sono l'ultimo illusorio assalto al cielo dell'uomo moderno che pensa di fare da sé, prescindendo da Dio?
Dopo secoli di ostilità, durante i quali furono considerati anatema, oggi «la Chiesa, in forza del Vangelo affidatole, proclama i diritti umani», secondo l’espressione usata dal Concilio Vaticano ii, e considera questa proclamazione come un «aggiornamento» del messaggio cristiano. Sul fronte opposto, i diritti umani sono considerati beni di giustizia che si possono giustificare sulla base della ragione ed esportare ovunque. Dubito di queste tesi. Penso che, accettando i diritti umani, in particolare i diritti sociali, la Chiesa abbia riveduto il suo tradizionale insegnamento che mette al centro del comportamento cristiano i doveri dell’uomo verso Dio, non i suoi diritti verso gli altri uomini. Penso anche che non esista una correlazione stretta fra doveri e diritti che giustifichi questa revisione. E penso infine che quel dialogo che, tramite i diritti umani, la Chiesa intende intrattenere con il mondo moderno sia piuttosto una mela proibita. La tesi che sostengo in questo libro è che i diritti umani appartengono più alla storia della secolarizzazione che a quella della salvezza. Essi presuppongono un’antropologia dell’uomo, una concezione della persona umana e un finalismo della storia terrena difficilmente compatibili con l’escatologia cristiana. «Chi sei tu per rispondere a Dio?»: la logica dei diritti umani non arretra di fronte a questa domanda, che invece rende umile il credente. Riguardo alla giustizia concepita in termini di diritti umani, quei fenomeni sempre più lamentati che essi generano – di incertezza, proliferazione, autofagia, costruzione arbitraria da parte di maggioranze parlamentari e corti supreme, insostenibilità sociale, conflittualità – dovrebbero indurre tutti a ripensarla. Marcello Pera