A Palo Alto, nella California degli wasp, tra abeti, querce ed eucalipti, la molto sensibile Veblen, «esperta sollevatrice d’animi» dotata di un «disorientato ottimismo» e di una alquanto singolare passione per gli scoiattoli (li ama ed è convinta che le parlino), dice sì a Paul, l’uomo aitante, brillante scienziato in carriera, che ha dichiarato di volerla sposare. Stregati, i protagonisti lasciano il bosco in cui si erano rifugiati e si incamminano, «due forme umane fuse in una», verso un futuro da costruire. Come a sollevare seri dubbi sulla faccenda, li saluta un verso acuto, uno squittio, che solo Veblen è in grado di decifrare: è in arrivo una spaventosa alchimia. Il loro progetto di matrimonio, infatti, è un ordigno pronto a esplodere. E non tanto perché quella mania dei roditori (da Paul considerati infestanti parassiti) è una delle molte stravaganze, in fondo la più innocua, che Veblen non ha ancora confessato al futuro marito. In realtà, i due giovani innamorati si conoscono a malapena e, cosa ben peggiore, non si sono mai incontrati con le rispettive famiglie, né le hanno fatte incontrare tra di loro. È qui che deflagra la commedia. Da una parte i genitori di Paul: ex hippie, coltivatori di marijuana, complottisti convinti, totalmente in balìa dell’altro figliolo, il primogenito ritardato. Dall’altra la madre di Veblen, quintessenza della figura materna egocentrica, ipocondriaca, passivo-aggressiva, con un marito che la segue come un’ombra e un ex, il padre della figlia, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. In un crescendo di quotidiana follia, con dialoghi che aprono squarci sconfinati su paesaggi interiori, si arriva al sospirato atto finale di questo divertentissimo psicodramma esistenziale, diventato subito dopo l’uscita uno dei più acclamati romanzi americani degli ultimi tempi. Ben gli si attaglia il giudizio di Elizabeth Strout sulla capacità di McKenzie di rivelare, dietro all’umorismo che pervade i suoi racconti, che la vita è un affare serio.