Il 17 giugno 2003 saranno vent'anni esatti dall'arresto di Enzo Tortora. Presentatore tivù con 28 milioni di spettatori al tempo di "Portobello", improvvisamente trasformato in mostro, detenuto, camorrista, poi eletto deputato europeo, Tortora è diventato, suo malgrado, il simbolo dell'ingiustizia all'italiana. Il suo "caso giudiziario" è il più clamoroso dal dopoguerra.
Su questa vicenda è stato scritto molto, sia in termini giuridici che giornalistici. Sono passati vent'anni, ma non molto sembra cambiato nel pianeta giustizia.
Eppure chi ricorda la storia del presentatore dato in pasto ai media in manette, processato sui giornali prima che nelle aule dei tribunali? Chi sa veramente cosa pensava, provava, scriveva Tortora durante la sua tragedia giudiziaria?
"Cosa succede nel cuore di un uomo dopo tanta disperazione?" si chiese Enzo Biagi in un articolo dal titolo Quell'uomo in manette scritto per Epoca a dieci anni dall'arresto. Oggi la domanda resta la stessa.
Per ricordarlo, senza commemorarlo, per onorarne la memoria senza celebrarlo e senza prestare il fianco alle solite polemiche politiche, ci sono le lettere che Tortora scrisse a sua figlia Silvia. Prima dal carcere di Regina Coeli, poi da quello di Bergamo e dalla sua casa di Milano, dove scontò gli arresti domiciliari.
Silvia le ha raccolte seguendo la sua odissea nell'ingiustizia, dal 17 giugno 1983, data dell'arresto, al 18 maggio 1988, data della sua morte.
Silvia Tortora giornalista e sceneggiatrice, ha curato l'edizione di questo volume.