Sul finire dell’anno 1863, i lettori del «Figaro» si trovarono di fronte a un evento di cui non erano certo in grado di cogliere il senso. In un saggio che prendeva a pretesto i disegni e gli acquarelli di Constantin Guys, pittore geniale e scontroso del Secondo Impero, Charles Baudelaire ripensava la propria opera e gettava le basi dell’arte moderna. L’elogio del trucco che pone riparo all’animalità del genere umano, l’esaltazione del dandy in quanto modello di comportamento altamente morale, la celebrazione della grande città e delle folle, il culto della moda e degli aspetti mutevoli del Bello… l’intera riflessione del Pittore della vita moderna è tesa a sovvertire la grande idea illuministico-romantica, virtualmente progressista e borghese, della bontà della natura. L’immediatezza vitale è ricusata, come cedimento agli istinti, e assume valore l’artificiale, difficile da raggiungere e spesso precario. Dal 1863 fino a oggi, tutti coloro che si sono voluti pittori della vita moderna hanno declinato, nelle variazioni non sempre consapevoli delle loro teorie, temi e finalità di questo fondamentale scritto critico baudelairiano.