Dicembre, Alta Langa piemontese. Sebastiano Guarienti, pilastro della saga farinettiana, ha l’eccentrica idea di suggerire al sindaco di un piccolo paese di organizzare un grandioso ballo di Capodanno in costume nel castello locale, assai cadente. Un’insensatezza che il primo cittadino, da grossolano signorotto con le mani in pasta in diversi affari, fa subito sua per accattivarsi il declinante favore della cittadinanza. Tra ex belle donne sfiorite ma ancora appetibili, un nobiluomo che vive da solo in un convento con un cavallo imbalsamato, una vecchietta in odore di stregoneria, una giovane charmosa, un altrettanto giovane e fascinoso architetto, e poi formaggiai, parroci, nonne impossibili, muratori romeni di impagabile simpatia, devastanti ragazzini e farmacisti cornuti, la preparazione del veglione scorre febbrile sotto gli sguardi divertiti di Sebastiano e del maresciallo dei carabinieri Beppe Buonanno, a loro volta colti entrambi in un’impasse sentimentale dai risvolti inquietanti. Come da copione, però, la notte di Capodanno, al culmine dell’affollato festone, fra le pareti del castello avviene un sanguinoso omicidio. E qui il maresciallo deve smettere i panni dell’amabile saggio per vestire quelli più concreti del severo inquisitore. Perché sì, ridendo e scherzando, il morto c’è stato davvero.
Gianni Farinetti ci regala una nuova commedia dai risvolti neri, in cui ritroviamo i personaggi del suo fortunato Rebus di mezza estate mescolati a nuove figure con, protagonista occulto, il severo panorama delle Langhe, questa volta in versione invernale, fra tradizione e modernità, antiche lentezze e nuove mode. Un eden marginale, nel quale però allignano i peggiori misfatti di questo nostro (ex bel) paese.