«Il re della festa non è Thomas Mann». La morte a Venezia, sostiene Mario Isnenghi, è un fecondo genere letterario, ma, se usato come criterio di verità storica, diventa un veleno mortifero, una falsa coscienza, altra faccia della consuetudine tutta italiana all’autodenigrazione. Dopo aver dato conto delle origini letterarie del cliché che ha trasformato la città da luogo del buon governo a trionfo di una narrazione declinista, l’autore chiama in causa eventi, luoghi, personaggi tra la fine del Settecento e i giorni nostri, come plurime e contrastanti prove della vitalità di Venezia, delle sue tante identità mobili. Inizia così una «scorribanda» tra Otto e Novecento, attraverso le imprese di idrovolanti e dirigibili, salotti animati da donne illuminate ed emancipate, stabilimenti termali e una inedita concorrenza ferroviaria con Milano, la vita di campi e associazioni, tra figure note – Riccardo Selvatico, Margherita Grassini Sarfatti, Giuseppe Volpi e Gabriele D’Annunzio, veneziano d’elezione – e meno in luce ma altrettanto decisive – da Giovanni Busetto detto Fisola, «inventore del Lido», a Giuseppe Turcato, «custode della Resistenza». In una serie di passeggiate divise per temi, Isnenghi recupera e mette insieme vari tasselli oscurati dalle grandi gesta accompagnate dalla marcia funebre, per individuare i momenti di frizione in cui un immaginario avrebbe dovuto lasciare il passo a quello successivo e capire che cosa invece è andato storto. Emerge una visione europea e mondiale della città, in una rielaborazione critica tra memoria, letteratura e storia che assume ancora più valore oggi, quando necessario appare un suo ripensamento.