Quando a ventisette anni Carlo Carabba ha pubblicato la sua premiatissima raccolta d’esordio (Gli anni della pioggia), gli appassionati italiani di poesia sono subito rimasti colpiti dalla novità dei suoi versi. Il suo immaginario sembrava mischiare, senza soluzione di continuità, echi della grande tradizione poetica occidentale, da Orazio a Gozzano, con i riferimenti culturali tipici di un giovane uomo nato negli anni Ottanta. E allo stesso modo la sua lingua era incredibilmente semplice, simile al tono medio del parlato, ma anche cesellata nei versi codificati, per lo più settenari ed endecasillabi, ma anche quinari, sparuti alessandrini e qualche “pascoliano” novenario. Carabba sembrava rompere con le due principali tradizioni della recente poesia italiana, lo sperimentalismo un po’ ermetico e difficilmente comprensibile da un lato, e la poesia minimalista del dettaglio e del correlativo oggettivo dall’altro, a favore di una poesia “che si capisce”, che racconta esperienze quotidiane e riflette sui grandi temi universali: gli affetti, il lutto, la morte, l’amore e le sue difficoltà, il senso di insoddisfazione di sé, la paura e la speranza del futuro. Oggi che Carabba ha quarant’anni, e ha compiuto quella che viene considerata “la prima parte” della vita, pubblica una raccolta che ripercorre il suo cammino poetico, partendo da alcune delle poesie incluse nelle precedenti raccolte e aggiungendone molte nuove, come le sei che compongono il lungo diario in versi di un coast to coast in America, il sonetto “in morte del padre” iniziale, o le due “satire”. Un libro che può leggere chiunque, anche chi non ha mai letto una poesia contemporanea prima, scritto da quello che forse è “il primo poeta italiano del terzo millennio”.