L'uomo che volle farsi re

L'uomo che volle farsi re

a cura di

pp. 176, 1° ed.
978-88-317-1054-1
Una coppia di sgangherati vagabondi, sottufficiali in congedo dell'esercito imperiale britannico, si avventura nella folle e grottesca impresa di conquistare il Kafiristan e farsene acclamare re, sognando di trattare l'alleanza con l'Impero inglese per il dominio strategico dell'intera area: è questa la storia tragicomica di Dravot e Carnehan, balordi protagonisti di un'epica imperiale degradata a caricatura, che si aggirano spaesati e patetici in un'India anch'essa degradata: spazio del margine e dell'erranza, brulicante di treni e di snodi e di figure senza nome, che gradualmente si sperde verso il deserto sterminato. A raccontare la storia, o meglio a trasmetterla così come gli arriva dalla cantilena stralunata di Carnehan, unico superstite della catastrofe, è la voce "professionale" di un giornalista (facilmente riconducibile allo stesso Kipling), figura della testimonianza e della memoria che racconta al mondo la struggente malinconia di quel canto allucinato, di cui resta alla fine soltanto un'eco che tutta la avvolge. In un impasto denso di registri - l'umile e il sublime, il basso mimetico dei personaggi e il "realistico" della voce narrante - si intrecciano voci e storie diverse: quella dei due poveri ciarlatani e di tanti altri sconfitti dell'impresa imperiale - nativi e britannici cancellati dalla storia - e quella della Grande Storia, di cui il racconto di Kipling si fa parodia e al tempo stesso tragico controcanto.

Autore

(1865-1936), autore di memorabili raccolte di racconti, di poesie, delle storie di Mowgli il ragazzo lupo (Il libro della giungla, 1894; Il secondo libro della giungla, 1895) e di romanzi quali La luce che si spense (1890), Capitani coraggiosi (1897), Stalky & Co (1899), Kim (1901), è soprattutto il grande scrittore dell'Impero britannico in India, poiché, come dice T.S. Eliot, l'Impero è la questione di fondo di Kipling. Kipling - scrive ancora Eliot - non è ignaro dei difetti, dei torti dell'Impero britannico, ma è incrollabile la sua fede nell'idea imperiale, in ciò che avrebbe dovuto e potuto diventare: fede in un ideale e dunque non di questa terra, «un'idea di Impero relegato nei cieli». Una contraddizione - tra quell'ideale e la durezza, anche brutale, della realtà coloniale - che la narrativa di Kipling lascia spesso trasparire.