Eredi ingrati nella prima parte indaga i modi in cui la cultura tedesca ha gestito, dal 1900 al 1945, il prestigioso patrimonio della tragedia greca ereditato dall'età del classicismo romantico e idealistico, della Klassik e della nuova filologia. Se La nascita della tragedia (1872) del giovane Nietzsche ne sconvolse genesi e destino, forme e significato, tocco a Wilamowitz ricomporne su solide basi filologiche una attendibile immagine storica e a un tempo "riscoprirla", facendola ritornare ai fasti della scena proprio nell'anno che apriva il nuovo secolo e in cui Nietzsche morì. Fu appunto la sua morte a dare origine a una dilagante voga, gravida di conseguenze per la comprensione della tragedia greca come prodotto storico. Ispirandosi infatti all'antistoricismo, alla invenzione di un "mito tragico" e al "dionisiaco" irrazionalismo di Nietzsche, una generazione di giovani, duramente provata dalla Grande Guerra e delle traumatiche conseguenze istituzionali e politiche, economiche e sociali della sconfitta, affascinata dai "miti" riscoperti della "razza germanica" e dalla presunta affinità tra mondo germanico e mondo greco, tanto più vagheggiato quanto più remoto, e attratta dalla "rivoluzione reazionaria" del nazionalsocialismo, al quale, a partire dal 1933, anche molti classicisti aderirono, portò gravi insidie alla identità "ateniese" e alla istituzionale funzione "teatrale" del dramma greco. Alcuni studiosi infatti lo proiettarono, guardando soprattutto a Eschilo, verso un primitivismo "mitico" e "rituale" di ascendenza nietzscheana; altri, preferendogli Sofocle e muovendosi nell'orbita di George, ostile al teatro, lo congelarono in un modello di astratta classicistica perfezione, in opposizione alla scomoda "modernità" di Euripide.
La seconda parte tratta del "teatro greco" di Max Reinhardt e dei "drammi greci" di Hofmannsthal, che con gli originali hanno rapporti quantomeno problematici.
La terza, analizza tre "drammi greci" espressionisti, l'ultimo dei quali, la Medea di Jahnn, fu rappresentato nel 1926. Chiude il lavoro l'esame della Tetralogia degli Atridi di Hauptmann, cupa metafora della "tragica" fine della Germania nazista e del tramonto della "nietzscheana" tragedia greca. Tenterà di rinnovarne la fortuna riscoprendo il "dionisismo" e inscenando Baccanti assai più nietzscheane che euripidee (Schechner e altri), l'ambigua "rivoluzione" culturale del Sessantotto, attorno al 1990 quasi del tutto conclusa. Dagli inquietanti ed evidenti nessi - necessaria premessa di tutto il saggio - tra questa fase e quella in cui Eredi ingrati traccia la storia, tratta l'Introduzione.