Il personaggio di Amleto è divenuto un mito, se non il mito dell’uomo moderno. Nel travaglio della crisi epocale tra Cinque e Seicento, la nuova coscienza tragica che egli esprime in modo esemplare equivale a una vertiginosa percezione dello smarrimento di ogni senso, di ogni valore e parametro di conoscenza. In quello sperdimento si sono rispecchiati artisti e pensatori di ogni tempo, e il dramma è stato rivisitato innumerevoli volte: rifatto, adattato, trasposto, parodiato, integrato, miniaturizzato. E chiunque ha creduto di potersene, o doversene, riappropriare, lo ha fatto per cercare il segreto di quel testo come se fosse il proprio segreto. Lo scacco, l’enigma di Amleto, percorre le pagine del Wilhelm Meister di Goethe, il cui protagonista è letteralmente affascinato dal personaggio: «Un essere bello, puro, nobile, altamente morale, senza la virile forza naturale che fa l’eroe, soccombe sotto un peso che non può né portare né respingere». È un processo di identificazione che continua in tutti i romantici. «Siamo noi Amleto», scrive William Hazlitt; mentre August Wilhelm von Schlegel, ancora interrogandosi sul protagonista e sul suo enigma, accosta il dramma a una di «quelle equazioni irrazionali in cui rimane sempre una frazione di grandezza sconosciuta che non ammette soluzione alcuna». Mistero e stranezza, uniti al senso del suo mitico appartenere alla storia di tutti noi, sono ancora le chiavi della lettura novecentesca. Se per Freud Amleto è, dopo l’Edipo re di Sofocle, l’altro grande testo che racchiude il mistero dell’uomo e delle sue relazioni primarie, T.S. Eliot lo definisce «la Monna Lisa della letteratura»; una immagine ripresa anche da Jan Kott, che nota con stupore come Amleto sappia parlare anche a coloro che non hanno mai letto né visto niente di Shakespeare: «in questo senso rassomiglia a La Gioconda. Prima ancora di averla veduta, sappiamo già che sorride»