Opera anomala, divergente dal codice del realismo in cui Keller si radica come assoluto maestro, le Sette leggende nascono come parodia di quelle cattolicheggianti - esaltanti l’ascesa, il sacrificio, la tortura - di un fanatico pastore protestante, Theobul Kosegarten: conversioni che agiscono all’incontrario, una vergine che mette in atto astuzie e travestimenti per aiutare le sue protette a realizzare l’unione con l’amato, diavoli che si trasformano in ninfe, un paradiso in cui risuona il rimpianto per la perduta felicità terrena, madonne che scendono dagli altari, si travestono da cavalieri e combattono contro il diavolo con eccezionale forza fisica. Gravata al suo apparire dal sospetto di iconoclastia e irriverente spirito antireligioso, la raccolta è invece una metafora poetica della vita in terra, descrizione di un mondo gentile sottratto alle leggi della necessità e toccato dalla sorridente grazia del miracolo. Ma i miracoli sono miracoli laici: se Kosegarten, credendo di dare esempi di santità, aveva proposto immagini di mortificazione dell’umano, Keller combatte i dimidiamenti dell’uomo e persegue il sogno feuerbachiano di una umanità che si realizza in una miracolosa pienezza di vita, nel raggiungimento di armonia, felicità e amore. La sua opera più misteriosa, quella in cui con maggiore evidenza si manifesta l’"enigmatica perfezione" di cui parla Benjamin in un suo saggio.