Modellato sul genere del "racconto orientale" diffuso in tutta Europa dopo la traduzione delle Mille e una notte, Rasselas principe d’Abissinia (1759) - se non l’unico, certo il maggiore testo narrativo del grande critico e saggista Samuel Johnson - è una parabola sul desiderio e la ricerca della felicità narrata con gli accenti biblici di un moderno Ecclesiaste e con la solenne retorica di un moralista classico. Spinto dalla curiosità di conoscere il mondo per acquisire esperienza e compiere quella "scelta di vita" da cui si ripromette la felicità, Rasselas intraprende un viaggio al termine del quale l’unica certezza - e l’unica saggezza - che raggiunge è quella già da sempre compendiata nel monito biblico nihil sub sole novi. La natura e il destino umani sono ovunque gli stessi e la vita è una condizione "in cui vi è molto da sopportare e poco da godere". Ma a riscattare questa favola-apologo sulla identità della natura umana da una mera prospettiva didascalico-pedagogica e da una cornice "ideologica" immobile e immobilizzante, interviene la grande sensibilità psicologica di Johnson, che indaga con stupefacente e problematica modernità le radici esistenziali del viaggio e i moventi che spingono l’uomo a una incessante ricerca del nuovo e del diverso da sé: la coscienza umana è costruita infatti non sul bisogno ma sul desiderio, e su una tensione destinata a rimanere inappagata in un viaggio in_nito in cui ogni nuova meta raggiunta ne dischiude un’altra, e un’altra ancora. E così, nella "Conclusione, in cui nulla si conclude", ciascuno dei personaggi immagina per sé, ancora, un Altrove del desiderio inattingibile: quel mito dell’Eldorado che nel racconto di Voltaire (per tanti versi simile a questo di Johnson) è il sogno di Candido.