Ultimo dei drammi shakespeariani, La tempesta (1611) ha goduto di successo e popolarità ininterrotta, entrando in sintonia con ogni epoca attraverso chiavi di lettura ogni volta diverse - segno questo di inesauribile ricchezza e vitalità. Apprezzata già nel Settecento per il potenziale scenografico e musicale (ne fu tratta anche una versione operistica) e per la compattezza armoniosa della sua costruzione, amata in epoca romantica per la sua dimensione magica e onirica (un miracolo - diceva Coleridge - che ha la complessità e la polivalenza del mondo), l’isola de La tempesta mostra di volta in volta la favola utopica di un mago-scienziato onnipotente, il romance di una ritrovata finale armonia, una straordinaria riflessione sul gioco della illusione teatrale, e molte cose ancora. Ma è soprattutto il rapporto tra Natura e Cultura, con i suoi inquietanti risvolti storici e antropologici, che attraversa da sempre la lettura del dramma, e che lo rende oggi uno dei testi più amati, interrogati, rappresentati e ri-scritti, anche in paesi lontani e nelle culture cosiddette postcoloniali. Il selvaggio mostruoso Calibano, cui Shakespeare sa regalare anche sogni e struggenti battute, diviene (insieme ad Ariel, a Prospero e Miranda, e a tutti gli altri) luogo di uno scontro-incontro con il diverso-da-noi e con le nostre più profonde contraddizioni. E certo non sorprende che con La tempesta si siano misurati i più grandi registi, a teatro e al cinema: il grande Strehler (1978), Peter Brook (1990), il film di Greenaway (Prospero’s Books, 1991), e anche la straordinaria Tempesta napoletana di Eduardo (1984).