Sidereus Nuncius

Sidereus Nuncius

a cura di , traduzione di

pp. 252, 8° ed.
978-88-317-6619-7
Piccolo trattato messaggero di grandi e sconvolgenti verità, secondo la definizione dello stesso Galileo, il Sidereus Nuncius è un testo epocale non solo per la storia della scienza ma anche per l’immaginario dell’uomo barocco. Le scoperte di cui si fece araldo, oltre che contribuire ad abbattere il paradigma aristotelico e tolemaico fondato sulla rigida distinzione tra il cielo e la terra, destarono sentimenti contrastanti di entusiasmo e di smarrita inquietudine su letterati, artisti, filosofi e, fatto insolito nella cultura italiana, sulla gente comune. Il cannocchiale, per la prima volta descrittovi diffusamente, uscì con quest’opera rivoluzionaria dai recinti specialistici dell’ottica per rivestirsi di valori simbolici che si riverberarono, come si dimostra nell’introduzione, sull’estetica, sull’etica e sulla critica letteraria, alimentando perfino una prosa fantascientifica conseguente alla scoperta di nuovi mondi. Galileo, unanimemente vittorioso nel confronto con Cristoforo Colombo, ottenne con il Sidereus una fama ecumenica, dalla Russia alla Cina, fino al Giappone, divenendo subito presso i poeti, da Marino a Milton, lo scienziato più rappresentativo della modernità.

Autore

nato nel 1564 a Pisa, nella cui università studia matematica con tanto profitto da diventare docente della materia nel 1589, si trasferisce tre anni dopo a Padova, dove mette in luce le sue eccezionali doti di scienziato, docente, tecnico. Dopo essersi ben presto convinto del moto della Terra, con il Sidereus Nuncius, del 1610, la sua fama diventa planetaria, grazie alle scoperte conseguite con il telescopio. Decide allora, per avere più tempo da dedicare alla dimostrazione della teoria copernicana, di trasferirsi a Firenze al servizio dei Medici. Nonostante il monito ingiuntogli nel 1616 dalla Chiesa a non difendere più la tesi del moto della Terra, Galileo continua la sua opera di proselitismo a favore della scienza moderna. Pubblica Il saggiatore nel 1623 e nel ’32 il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, che gli procura da parte del Sant’Uffizio la condanna all’abiura delle tesi eliocentriche. Ritiratosi nella sua villa di Arcetri, seguita tuttavia a lavorare, malgrado la sopraggiunta cecità,
ai Discorsi intorno a due nuove scienze, edite nel ’38. Muore nel 1642, dopo essersi meritato, scrive il suo allievo Viviani, «fama gloriosa e durabile quanto durerà l’universo».