La seconda tragedia manzoniana, che qui si ripresenta nella prima edizione del 1822, fu composta in anni cruciali per le cospirazioni risorgimentali in Lombardia e tra i più tristi per quell’uomo dalla coscienza delicata che fu Alessandro Manzoni. In un contesto ricco degli echi tragici della contemporaneità, si inscena, come già nel Conte di Carmagnola, il dramma dell’azione negata e dell’impossibile conciliazione della felicità dell’individuo con le ragioni del potere. Al centro dell’azione-riflessione tragica è la figura di Adelchi, il principe longobardo che assiste impotente alla caduta del regno dei suoi avi, insieme alla sorella Ermengarda, la sposa ripudiata di Carlo. In Adelchi lo scacco dell’individuo-eroe, già caro al teatro classico, si misura non nella scelta plateale del suicidio, ma nella consapevole rassegnazione a una sorte senza gloria. Ermengarda invece, la vittima innocente del naufragio della passione, affida al linguaggio non cosciente del delirio prima, alla voce del Coro poi, la traccia fragile della propria vicenda, segnando in questa impossibilità di trasformare in parola il proprio dramma la sua appartenenza alla schiera delle vittime senza storia.