Si legge spesso che Pentesilea è la più kleistiana delle opere di Kleist; di sicuro la più sconcertante, non a caso riscoperta e rappresentata soltanto un secolo dopo dalla sua pubblicazione (1808).
Le ragioni del lungo esilio dal teatro non sono state solo quelle legate alla difficoltà di mettere in scena donne armate, battaglie, cavalli e guerrieri, e neppure lo stesso giudizio critico di Goethe, pur gravido di conseguenze personali per Kleist.
Piombata come un meteorite nel mezzo del classicismo weimariano, la tragedia minacciava in realtà il canone convenuto e l'intero progetto neoumanistico, ogni idea di ordine e riconciliazione. Al complesso edificio etico-estetico che proprio Goethe e Schiller avevano elaborato in risposta al caos della rivoluzione francese, e ai loro modelli consolatori e salvifici diversamente ripresi dal mondo antico, con Pentesilea Kleist opponeva l'immagine di una grecità arcaica, alterando significativamente parecchi dati del mito. Tremila versi di passione e furore, dismisura e sfida di ogni regola.
Pentesilea che, alla fine di tanti serrati duelli, sbrana Achille per amore non poteva non fare paura ai suoi lettori, e ancor più ai suoi improbabili spettatori. Faceva paura l'enigma, la ferinità e l'ambiguità dell'eros, l'assimilazione cannibalica dell'Altro, lo strazio del maschio. Facevano paura le Amazzoni, il mitico esercito di donne armate, la cui separatezza veniva a ricordare fantasmi e tragedie lontane. Soltanto le avanguardie storiche del primo Novecento, al termine del lungo percorso che aveva portato a Freud e alla scoperta dell'inconscio, avrebbero riconosciuto in Kleist un grande precursore e posto fine al lungo ostracismo di Pentesilea dalle scene tedesche.